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sabato 28 marzo 2009

Parte seconda



-La pista sarda-



Erano circa le 24:00 di Mercoledi' 21 agosto 1968, e mentre l'armata rossa invadeva la Cecoslovacchia mettendo fine alla primavera di Praga, una coppia usciva dal cinema Michelacci di Signa dopo aver assistito alla proiezione serale del film "nuda per un pugno d'eroi", una pellicola giapponese in cui si narravano le peripezie di un infermiera costretta a barcamenarsi tra stupri e sofferenze in un ospedale da campo durante la guerra.
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La coppia e il bambino montarono su una giulietta bianca parcheggiata li vicino, incamminandosi lungo la strada per Lastra a Signa dove la donna abitava e dove avrebbe dovuto ritornare a breve. Poi, approfittando del fatto che il bambino si era addormentato sul sedile posteriore, decisero di cambiare strada imboccando via di Castelletti, per fermarsi infine in una stradina di campagna a un chilometro dal cimitero di Signa e poco oltre il bivio per Comeana.
Mentre i due amanti erano gia' l'una sull'altro, forse sdraiati sul sedile passeggero reclinato, qualcuno sbuco' da dietro l'attiguo canneto impugnando una beretta calibro 22 ed apri' il fuoco sulla coppia dallo sportello anteriore sinistro. Il primo ad essere colpito fu' l'uomo, che ricevette 4 proiettili al braccio e all'emitorace sinistro morendo sul colpo. La donna tento' forse di aprire lo sportello destro, ma venne colpita anch'essa da altri 4 proiettili e si accascio' ormai morta sul compagno .
Alle 2:00 del mattino, in una casa su via del Vingone sita a poco meno di 2km da dove era parcheggiata la giulietta, qualcuno suono' il campanello del signor De Felice. Costui si affaccio' immediatamente dato che era ancora sveglio a causa del figlio piu' piccolo che non riusciva a prendere sonno, e fuori, davanti alla porta, vide che c'era solo un bambino scalzo che gli chiedeva di farlo entrare. Disse il bambino: "Aprimi la porta perchè ho sonno, ed ho il babbo ammalato . Dopo mi accompagni a casa perchè c'è la mi' mamma e lo zio che sono morti in macchina."

Superato lo shock iniziale che una tale scena surreale gli aveva procurato, l'uomo fece entrare il piccolo prestandogli i primi soccorsi e chiedendogli cosa fosse successo. Il bambino riferi' stentatamente qualcosa a proposito dell'essersi svegliato all'improvviso e di aver stretto la mano della madre capendo che era morta, di essere poi uscito piangendo dal finestrino posteriore rimasto aperto e di aver vagato sulla strada guidato fin li' dalla luce accesa nella camera del figlio del De Felice.

Mezz'ora dopo, insieme al bambino che diceva di chiamarsi Natalino, i Carabinieri cominciarono a cercare il luogo dove era parcheggiata l'auto, trovandola dopo pochi chilometri di strada e qualche giro a vuoto. La giulietta del resto era ben visibile a distanza nonostante il buio della campagna perche' la freccia destra era rimasta stranamente accesa. Effettivamente sull'auto c'erano i cadaveri di due persone, identificati in breve come Barbara Locci, 29 anni casalinga, ed Antonio Lo Bianco, 28 anni manovale. Il bambino, Natalino Mele, era il figlio della donna che evidentemente quella sera non era uscita con il marito...
Alle 7:00 del 22 Agosto i Carabinieri si presentarono a casa di Stefano Mele gia' sospettando che quell'omicidio fosse potuto scaturire dal piu' classico dei motivi passionali... il tradimento.

Al primo colpo di campanello il Mele, gia' vestito di tutto punto e con le mani sporche di grasso, si affaccio' dalla finestra quasi di scatto, e aperta la porta mostro' subito molta apprensione giustificandola con il mancato ritorno della mofgli e del figlio di cui non sapeva piu' nulla dalla sera prima.
Riportato in caserma il giorno successivo, dopo 10 ore di interrogatorio, il Mele confessera' il duplice omicidio... ma chi erano Stefano Mele e Barbara Locci? E quella confessione quanto si dimostro' affidabile nel tempo?

Stefano Mele sul finire degli anni 50 si era trasferito a Scandicci al seguito della famiglia guidata dal patriarca Palmerio, emigrati dal paesino sardo di Fondorgianus in cerca di condizioni di vita migliori. In Sardegna Stefano aveva conosciuto la miseria nonostante il lavoro di pastore, una condizione che solo in parte aveva migliorato con l'arrivo in Toscana dove si era messo a fare il manovale edile. Si trattava di un ometto debole psicologicamente e non troppo saldo sulle gambe, ma in fin dei conti un lavoratore che riusciva a portare a casa la pagnotta e soprattutto uno facile da tenere a bada. Ed e' cosi' che si era sposato con una ragazza sua conterranea, emigrata dalla Saqrdegna in val di Pesa nello stesso periodo, Barbara Locci, molto piu' giovane di lui ed anche molto piu' scaltra.
Qui la donna comincio' in piena liberta' a frequentare altre persone della comunita' sarda e non solo, fin quando non venne in contatto con un altro emigrante del suo paese, Salvatore Vinci, giunto a Signa nel 1960 con il figlioletto Antonio dopo che la sua giovane moglie si era suicidata con il gas. Piu' che per motivi economici Salvatore pare fosse dovuto emigrare per le conseguenze di una presunta relazione extraconiugale della giovane moglie che era poi sfociata in un misterioso suicidio della ragazza. Si sa' che in questi casi e' buona cosa non sfidare la sorte e il codice non scritto di quella terra, cosi' l'uomo penso' bene di cambiare aria e raggiungere il continente. Salvatore, che si era messo a fare il manovale pure lui, quando incontro' Barbara trovo' finalmente la donna che poteva soddisfare pienamente la sue attitudini, anche quelle in tema di sesso che l'uomo perseguiva con comportamenti complessi non disdegnando i rapporti di gruppo, o almeno cosi' dira' una sua futura compagna durante una testimonianza degli anni '80.
Ma la particolarita' piu' curiosa di quel sodalizio era il ruolo svolto dal Mele che non solo non dimostrava alcuna gelosia, ma addirittura, secondo quanto lui stesso riferira' nel 1985, partecipava ai giochi erotici dei due amanti, tanto che fu lui stesso a proporre a Salvatore di venire a vivere sotto lo stesso tetto (cit. Dolci Colline di Sangue. M.Spezi). Per la donna quella situazione a tre era diventata intollerabile e presto taglio' i ponti con l'amante trovando prima un sostituto in un tal Cutrona, un outsider di origini siciliane, poi addirittura nel fratello di Salvatore, Francesco Vinci. Con Francesco, che all'epoca aveva appena 24 anni ma che gia' era sposato con prole, alla donna piaceva farsi vedere tra i tavoli del locale bar dei sardi di Prato, frequentato gia' dal 66 da personaggi del calibro di Mario Sale e Giovanni Farina. Francesco, che con l'anonima sequestri non verra' mai dimostrato vi avesse avuto a che fare, era infatti attratto da quell'ambiente, e ben presto comincio' a percorrere una strada parallela fatta piu' che altro di furti e rapine. Il rapporto ando' avanti a singhiozzo fino all'estate del '68, quando la donna comincio' a frequentare un altro giovane di origini siciliane, Antonio Lo Bianco, lo stesso giovane con cui trovo' la morte la sera del 21 agosto appena poche settimane dopo il loro primo incontro.

Durante l'estenuante interrogatorio del 23 Agosto, il Mele, che inizialmente si proclamo' innocente confermando i sospetti degli inquirenti sui vari amanti della moglie, arrivo' alla confessione accennando a particolari che apparentemente solo chi fosse stato presente sulla scena del crimine poteva conoscere. In particolare riferi' della freccia lasciata accesa, della scarpa che il Lo Bianco aveva persa durante la sparatoria e il fatto che la donna fosse stata in parte rivestita dopo essere stata uccisa. Quei particolari , non ultimo il numero di colpi sparati, rappresentavano per gli inquirenti la certificazione necessaria a sostenere senza ombra di dubbio la responsabilita' dell'uomo indipendentemente dal modo con cui si era arrivati all'ammissione di colpa.
Stefano fu caricato su di un auto dei Carabinieri in modo da effettuare la ricostruzione di come avesse eseguito l'omicidio, ma proprio da questo momento comincio' un iter sconcertante fatto di imprecisioni, ritrattazioni e accuse che caratterizzeranno tutte le vicende successive. Da subito non fu in grado di condurre gli investigatori sul luogo, tanto che esasperati ce lo dovettero portare loro dopo aver vagato a vuoto seguendo le sue confuse indicazioni. Giunti finalmente nella stradina di Castelletti, dove era stata parcheggiata una giulietta simile a quella del Lo Bianco, gli misero in mano un arma perche' mostrasse in che modo aveva sparato. Se l'arma fosse stata carica il Mele si sarebbe sicuramente sparato su un piede. Per fortuna non lo era e dopo una scenetta quasi comica comincio' a puntare la canna dal finestrino posteriore sinistro simulando i colpi verso la coppia. La mancanza di una perizia comparativa (o meglio il non aver valutato quella ricostruttiva del perito Zuntini) allora non permise, come fu fatto successivamente, di smentire quella dinamica dove i colpi erroneamente venivano portati dal finestrino posteriore e non dallo sportello anteriore aperto, cosi' per qualche ora ancora gli inquirenti sperarono di aver risolto il caso senza troppi intoppi.
I dubbi pero' cominciarono ad emergere con forza subito dopo, quando gli si chiese dove avesse trovato l'arma e soprattutto dove l'avesse nascosta dopo il fatto. E' a questo punto che l'uomo, di fronte ai poliziotti esterrefatti, ritratto' in parte la confessione puntando il dito contro Salvatore Vinci, l'ex amante della Locci. Disse che in realta' quella sera lui era uscito da casa in bicicletta e giunto nella piazza di Signa aveva incontrato Salvatore al quale aveva riferito la situazione. Questo per tutta risposta gli aveva proposto di farla finita con la moglie e che quella era l'occasione giusta per sbarazzarsene. Disse di avere con se una piccola pistola e che avrebbero raggiunto gli amanti con la sua fiat 600 per poi assassinarli. Il Mele avrebbe quindi accettato recandosi con il Vinci presso il cinema da dove avrebbero successivamente pedinato gli amanti fino al Vingone. L'arma pertanto l'aveva fornita il complice e lui, dopo aver sparato, l'aveva gettata sulle sponde del torrente. Cosicche' il 24 mattina un piccolo esercito di poliziotti, armati di tanta pazienza, si mise a dragare i fanghi del fiume in maniche di camicia, mentre Salvatore Vinci veniva convocato in caserma per dare spiegazioni e per sostenere un eventuale confronto con il Mele.
Salvatore Vinci davanti ai giudici respinse ogni accusa, fornendo un alibi inattaccabile presentato da ben due testimoni, Nicola Antonucci e Silvano Vargiu, che la sera dell'omicidio dichiararono di essere stati con lui in un bar di Prato e di essere poi tornati tutti assieme a Briglia intorno alla mezzanotte e mezza. Nonostante l'alibi fosse confermato e che della pistola tra i fanghi del Vingone non ci fosse traccia, si decise comunque di eseguire il confronto al quale assistettero tutti gli inquirenti, compreso l'allora tenete Dell'Amico e il giovanne sostituto Caponnetto. Ci volle solo qualche occhiata del Vinci perche' Stefano Mele ritrattasse tutte le accuse buttandosi ai piedi dell'"amico" per chiedere perdono, ma Salvatore non fece in tempo ad uscire dall'aula che l'ometto, recuperate rapidamente le forze, aveva gia' coinvolto un altra persona, Francesco Vinci. Tenendo immutato il racconto precedente, si limito' a cambiare il nome del complice aggiungendo qualche particolare, tra cui l'uso del motorino di Francesco per raggiungere le vittime e che questo, dopo aver sparato , perche' lui non ne era stato capace, aveva riposto la pistola nel porta oggetti della lambretta. Furono pero' proprio quei particolari a sgretolare nuovamente la soluzione del caso tra le mani dei magistrati, sia perche' si appuro' che quell'arma in quel vano non ci sarebbe mai potuta entrare, sia perche' fu' accertato che in quei giorni il motorino di Francesco Vinci era in riparazione in un officina.
Nel bailamme di quei giorni, parallelamente agli interrogatori del Mele, si era cercato di "sollecitare" la memoria del piccolo Natalino che dal giorno successivo il delitto era stato affidato alla cura degli zii paterni. Il bambino, traumatizzato all'inverosimile da quello che gli era successo, aveva inizialmente detto di non aver visto nessuno, poi, il 24 Agosto, esortato nuovamente dai CC a dire la verita' racconto' che alla casa del De Felice lui non c'era arrivato da solo ma a cavalcioni del padre. Intorno al 26 Agosto Stefano Mele si arrese dichiarando di essere l'unico esecutore dell'omicidio e scagionando definitivamente tutte le persone coinvolte fino a quel momento.

Al processo in corte d'Assise del Marzo '70, il Mele tento' ancora una volta di ritrattare ripetendo con fermezza le sue precedenti accuse a Francesco Vinci, ma consigliato dai suoi avvocati fece l'ennesima marcia indietro riaffermando la propria colpevolezza, e, sebbene ci fossero molti dubbi che potesse aver fatto tutto da solo ,venne alla fine condannato. come unico esecutore del duplice omicidio Alcune testimonianze in particolare avevano ancor piu' reinsaldato quei dubbi, soprattutto quelle di un tal Barranca che in occasione di un suo tentativo di approccio con la Locci si senti' dire che non fosse il caso poiche' qualcuno con un motorino la stava seguendo. L'uomo, tornato alla carica poco dopo, aveva raccolto dalla donna una dichiarazione ancora piu' esplicita: "lo sai che ci potrebbero anche sparare mentre siamo in macchina?" Per il Barranca quella frase fu piu' che sufficiente per farlo desistere definitivamente, anche perche' quello non era un ambiente dove si potesse scherzare con le donne degli altri. Lo stesso Francesco Vinci, che al dibattimento ammise indirettamente di aver pedinato la Locci dopo che questa l'aveva lasciato, racconto' di averla vista un giorno alle cascine di Signa in atteggiamenti particolari con un tizio sconosciuto (ce lo racconta l'avvocato Filasto' nel libro Storia delle Merende infami, citando un estratto del processo: Francesco Vinci dice: "Tengo a precdisare di non aver mai seguito Barbara Locci, ma di averla vista per caso una volta alle cascine in compagnia di un tale che stava compiendo su di lei degli "atti". Non so' esattamente chi fosse, io lo conoscevo come tal Francesco").
Sembravano tutti indizi che portassero ad una seconda persona interessata alla sorte della donna e che avrebbe potuto essere il vero complice del Mele, ma rimasero sempre e soltanto indizi che non compromisero il rapido escursus della condanna al Mele.
In secondo grado l'impianto accusatorio fu confermato con l'aggiunta del riconoscimento della semi infermita' mentale, di cui pero' i giudici sembrarono non tenere conto al momento della definizione della pena. Venne anche respinta la richiesta della difesa di riaprire le indagini in seguito al recupero della testimonianza di tal Claudio Conticelli, che aveva gia' riferito "di aver visto più volte Francesco Vinci allenarsi al tiro con la pistola in aperta campagna." Quando il processo arrivo' in cassazione, la corte rinvio' l'appello per cio' che concerneva la sola determinazione degli anni da scontare e per qualche oscuro motivo procedurale il rinvio si tenne a Perugia. Nel 1973 il tribunale di Perugia confermo' la condanna per omicidio stabilendo una pena di 14 anni da espiare nel carcere di Firenze.

Parte prima --------------------------------------------------- Parte terza

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